Comunicare per connettere le generazioni

„Fintantoché la comunicazione è al servizio della società frammentata, tribalizzata, polarizzata, resta un’attività di piccola prospettiva e i problemi della società si risolvono nel conflitto. Se la società frammentata impara a comunicare pone le basi della soluzione dei problemi.“ Così scrive Luca De Biase nel suo recente post „Generazioni sconnesse“ constatando che „c’è bisogno di connettere le generazioni. Per il bene di tutti.“ perché „non c’è ingiustizia più insopportabile di quella che fa soffrire i giovani“.
Ma come imparare a comunicare?
Partiamo dalla comunicazione polarizzata attuale, quelle che tende cioè a separare, a dividere persone, gruppi e nazioni, tra „noi“ e „loro“. Un recente studio dimostra che la polarizzazione, cioè la tendenza a proiettare su un gruppo esterno l’aggressività viene favorita dall‘attivazione del circuito della ricompensa, da quel sistema cioè che gratifica con una sensazione di piacere le azioni che compiamo e che a seguito di tale ricompensa tendiamo a ripetere. Proiettare su un gruppo esterno le nostre frustrazioni e in definitiva la nostra aggressività non è dunque solo un bisogno sociologicamente e psicologicamente da tempo dimostrato ma è anche un piacere, che pertanto tendiamo a concederci il più frequentemente possibile.
Nello studio citato i ricercatori hanno chiesto a 35 studenti universitari di sesso maschile di completare un compito competitivo e aggressivo contro uno studente della loro università o di un’università rivale. In realtà, i partecipanti hanno giocato inconsapevolmente contro un programma computerizzato e nessuna persona reale è stata danneggiata. È risultato che i partecipanti che erano più aggressivi nei confronti dei membri del gruppo esterno (studenti di un’università rivale) rispetto ai membri del gruppo interno (studenti della propria università) mostravano una maggiore attività nelle regioni centrali del circuito di ricompensa del cervello – il nucleo accumbens e la corteccia prefrontale ventromediale. I risultati suggeriscono quindi che danneggiare i membri del gruppo esterno è particolarmente gratificante e associato all’esperienza di emozioni positive.

Possiamo dunque definitivamente dimenticare il buon selvaggio di Russeau e dobbiamo piuttosto ammettere di essere dei lupi, senza pelo ma con un sistema di comunicazione molto raffinato. Non ce lo ritroviamo tra le mani per caso ma perché siamo tra gli animali quelli che presentano il periodo più prolungato di vulnerabilità. Abbiamo proprio per questo sviluppato un sistema di difesa basato sui legami con i nostri simili, sulla capacità cioè di farci aiutare e proteggere dai nostri simili, in primis dai nostri genitori o comunque dai nostri caregivers . Il nostro attaccamento è in definitiva proprio questa capacità di trovare sicurezza nel legame con le nostre figure primarie, e poi con le persone che amiamo, il ché vuole naturalmente dire dipendere da loro come in nessuna altra specie animale accade. In tale contesto di attaccamento il nostro sistema di comunicazione si è parallelamente sviluppato con estrema raffinatezza e versatilità consentendoci di interpretare ed esprimere i nostri stati d’animo e di comprendere quelli altrui, in parte in modo spontaneo, intuitivo, (attraverso le emozioni incarnate veicolate dai neuroni specchio) e prevalentemente attraverso lo scambio verbale intenzionale (ottenute attraverso la teoria della mente sostenuta da aree prevalentemente temporali). E qui torniamo ai concetti di empatia (la capacità di identificarsi con un altro, la capacità di distanziarsi da tale identificazione e ancora la capacità di oscillare tra queste due funzioni) e di mentalizzazione. Mentalizzare significa comprendere i propri e gli altrui pensieri, sentimenti ed intenzioni, presupporre che tali pensieri, sentimenti e intenzioni siano alla base del comportamento, nostro e altrui, avere la consapevolezza che possiamo intuire e comprendere pensieri, sentimenti e motivazioni altrui, senza peraltro mai averne la certezza assoluta.
Fin dal nostro primo contatto con la persona che ci ha generato o comunque della persona che si prende cura di noi lo scambio di informazioni ed emozioni con l’altro/a procede, come già indicato, sempre secondo lo stesso modello: richiamo dell’attenzione altrui (attraverso ostensive cue: rivolgere lo sguardo, sorridere all’interlocutore/interlocutrice, chiamarlo/a per nome etc), rispecchiamento (comprensione sintona e sincrona di quello che l’altro prova) e marcatura, sottolineatura cioè del nostro stato d’animo volta a far comprendere all’altro/a che abbiamo capito il suo/a stato emotivo ma che il nostro è un po’ diverso, nostro appunto. In tutte le interazioni sociali, dalle più semplici alle più complesse e strutturate come quelle dell’apprendimento/insegnamento, dall’infanzia fino alla vecchiaia più avanzata, le tappe dello scambio emotivo e cognitivo rimangono le stesse: attenzione, rispecchiamento, marcatura. Sono proprio queste le fasi, che, ripetute all’infinito, rendono una comunicazione utile e fruttuosa, un rapporto vivo e stimolante, l’esatto contrario della comunicazione polarizzata e distruttiva.
Ma come si può obiettivamente differenziare una comunicazione utile e rispettosa da una polarizzante e distruttiva? Dall’impiego o meno appunto della mentalizzazione e dal superamento di forme di comunicazione e relazioni pre-riflessive, infantili, che continuiamo a portare con noi e ad a utilizzare nei momenti di maggiore tensione e stress emotivo.
Facciamo qualche esempio: mentalizziamo quando riusciamo a comprendere i sentimenti e i pensieri nostri e altrui, quando risolviamo i conflitti tra i nostri figli o amici, quando chiediamo una pausa al nostro capo o al nostro partner per una discussione chiarificatrice. Non stiamo mentalizzando quando pretendiamo che un’altra persona si comporti come noi desideriamo, come fanno i bambini piccoli che piangono per riavere da noi il giocattolo caduto (modalità teleologica). Non mentalizzaziamo neppure quando ci sentiamo in un certo stato d’animo, ad esempio impaurito e perciò riteniamo che la realtà sia come la sentiamo noi, minacciosa, come i bambini che temono vi sia un coccodrillo o un fantasma sotto il letto e non si lasciano rassicurare dalle argomentazioni razionali dei genitori (modalità di equivalenza). Non mentalizzaziamo neppure se diciamo a parole di comprendere benissimo l’amico che ci ha fatto uno sgarbo parlando di perdono ma in realtà stiamo bruciando dalla rabbia (modalità del come se, far finta che). A tutti noi succede di ricadere nelle fasi meno differenziate, infantili di pre-mentalizzazione e ciò accade tanto più facilmente quanto più si surriscalda la temperatura emotiva della situazione (conflittuale) in cui ci troviamo. Tanto più avremmo bisogno di riflettere perché la situazione è delicata e incandescente, tanto meno ci riusciamo proprio per lo stesso motivo, scadendo così in modalità di funzionamento mentale che accentuano il conflitto.
Eppure si può imparare a mentalizzare e dunque a comunicare e a distinguere tra la comunicazione che polarizza, manipola e quella che ci apre al dialogo rispettoso, allo scambio sincero. Decisivo per il riconoscimento dell’una o dell’altra non sono dunque solo e tanto i contenuti ma la modalità della comunicazione, il processo, riflessivo o meno, che la anima. E ciò offre a tutti la possibilità di partecipare e di connettere le generazioni.

Immagine: Edvard Munch, in Dialog, Albertina, Wien 

Suggerimento musicale, a cura di @marcoganassin Sergey Prokofiev, Romeo e Giulietta