La digitalizzazione sembra come la città di cui cantava Gaber, bella, grande, viva, allegra…non solo, ma anche “importante”, “fondamentale”, “cruciale”, “essenziale”, “inevitabile”. Sono questi solo alcuni dei tanti aggettivi a valenza fortemente positiva se non addirittura entusiastica con cui la digitalizzazione viene comunemente connotata. D’altro canto anche le indagini statistiche e sociologiche dimostrano un grande interesse dei cittadini, anche italiani, per la digitalizzazione. Ad esempio, nella ricerca recentemente compiuta dalla Fondazione per la Sostenibilità Digitale con l’Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, – basata sul DiSI City: il nuovo indice, sviluppato dalla Fondazione, che misura il livello di Sostenibilità Digitale delle 14 città metropolitane italiane – il 63% dei cittadini/e dichiara che la tecnologia digitale è “una opportunità per tutti con qualche rischio”. Quando però dal ruolo in astratto del digitale si passa ad analizzare gli impatti del digitale sulla vita sociale e di ognuno di noi, si scopre che “Il 61% dei cittadini italiani pensa che la tecnologia produca diseguaglianze, perdita di posti di lavoro ed ingiustizia sociale”. Emerge cioè che i cittadini hanno più paura del digitale di quanto non emergesse guardando al tema con maggiore distacco. Come se il digitale andasse incontro, dentro le nostre menti, a un processo di dissociazione che lo sdoppia in un oggetto con qualità affettive opposte, dunque buono se riferito in generale a economia e società, ma cattivo se riferito alle persone o al lavoro, come le strisce pedonali che hanno significato opposto a seconda che le guardiamo come pedoni o come automobilisti.
Dunque la digitalizzazione fa (anche e ancora) paura. Al punto che si parla nella letteratura specialistica di un’ansia da digitalizzazione per indicare il malessere psichico derivante dalla paura delle tecnologie esistenti e future, che comprendono il processo di digitalizzazione nella vita quotidiana a più livelli (individuo, organizzazioni e società). Tale ansia da digitalizzazione si può manifestare come “insoddisfazione lavorativa, percezione di essere svuotati dall’uso di dispositivi tecnologici, sentimenti di esaurimento, perdita di motivazione, frustrazione e burnout. Ulteriori problemi associati alla digitalizzazione, come la paura della sostituzione, l’iperconnettività stressante, l’aumento dei lavori cognitivamente richiesti e la contemporanea diminuzione di quelli manuali e l’ansia da digitalizzazione possono causare o aggravare i problemi di salute mentale.”
Quanto i concetti di ansia e digitalizzazione siano tra loro correlati e correlati pure a quello di depressione è ben dimostrato da uno studio che ha utilizzato a tal fine la grande quantità di dati disponibili in Google Books Ngram Viewer, uno straordinario corpus di libri (più di 8 milioni di libri, ovvero più del 6% di tutti i libri mai pubblicati). L’analisi comprende e confronta i dati di sei lingue, inglese britannico, tedesco, spagnolo, russo, francese e italiano. I risultati della ricerca dimostrano un aumento della frequenza delle parole per ansia, depressione e digitalizzazione negli ultimi 50 anni, una correlazione significativa tra la frequenza delle parole ansia e depressione, una correlazione significativa tra la frequenza delle parole ansia e digitalizzazione e una correlazione significativa tra la frequenza delle parole depressione e ansia.
Si può dunque ipotizzare, come fanno gli autori dello studio, che valga anche per la digitalizzazione quanto già osservato durante la rivoluzione industriale e cioè che le nuove tecnologie suscitano paura in noi ogni volta che vengono introdotte. Proprio per questo anche le paure e le ansie da digitalizzazione non vanno né negate né rimosse, proponendo l’immagine tanto ottimistica quanto illusoria di una digitalizzazione allegra ed entusiastica. È necessario invece individuare e riconoscere le paure da digitalizzazione come tutte le altre in modo da poterle pazientemente elaborare e superare, sconfiggendo pregiudizi e previsioni catastrofiche. Ciò sarà tanto più facile quanto più impareremo a distinguere la digitalizzazione dalla trasformazione digitale. La prima vuol dire “tradurre in linguaggio digitale i processi così da poterli gestire in maniera automatica” (Epifani). La seconda comporta invece “un processo di rimediazione dei comportamenti individuali e collettivi” e dunque “induce un vero e proprio cambiamento di senso in molti aspetti della nostra società” (Epifani). Mentre della digitalizzazione, se non tecnicamente ferrati, ci possiamo sentire passivi osservatori o addirittura potenziali vittime, possiamo (e dobbiamo) essere attori responsabili del cambiamento di senso che la trasformazione digitale comporta.
Immagine: Edward Hopper, Morning Sun, 1952. Columbus Museum of Art