Chi muore giace e chi vive si dà pace. Così, con sofferto disincanto, commentava spesso la reazione umana agli eventi luttuosi mio padre, che con quegli eventi, aveva, da medico condotto in un paese della bassa bresciana, dolorosa confidenza. Mi ricordo ancora il suo viso affranto quando era tornato da una chiamata urgente in cui non aveva potuto far nulla per due fratelli morti uno dopo l‘altro a causa delle esalazioni di gas tossici (anidride carbonica) in un silos di cereali. Rammento il suo incredulo dolore quando aveva appreso che un paziente che lui aveva sperato di aver protetto dal suicidio inviandolo allora in ospedale psichiatrico, si era suicidato là poco dopo esservi giunto. Mio padre, una vita trascorsa tra parti, malattie, sofferenze, confidenze, piccole soddisfazioni, dolori e morti, sapeva che nella maggior parte dei casi il dolore del lutto, prima o poi, si attenua, consentendo di tornare alla vita. Aveva fatto l’esperienza che spesso le persone teatralmente inconsolabili erano le prime a consolarsi e che in altri casi invece il lutto rimane come una pietra nel cuore di uomini e donne ben oltre dopo che avevano dismesso i vestiti o i bottoni neri (chi se ne ricorda ancora?) impedendo loro di vivere. A 100 giorni di distanza dal primo caso autoctono di COVID-19 in Italia diagnosticato a Codogno e dopo oltre 33.000, trentatré mila morti che giacciono (talora nei cimiteri comuni), chi può cerca di darsi pace, di pensare a un lavoro gravato dalla precarietà o a ferie non immuni dal rischio di contagio. Molte altre famiglie piangono ancora i loro cari. Tanti di noi si domandano come sia stato possibile. Come sia stato possibile che non ci fossero mascherine a protezione dei sanitari, morti in gran numero con i loro pazienti. Come sia stato possibile non chiudere e non sanificare l’Ospedale di Alzano lombardo dopo che vi erano transitati tanti pazienti con COVID-19. Come sia stato possibile mandare nelle case di riposo, a fianco degli anziani, malati di COVID-19 infetti e infettanti. Come sia stato possibile non instituire una zona rossa a Nembro, a Orzinuovi, a… Non credo che come italiani, e a maggior ragione come lombardi, possiamo darci pace prima di aver capito come quest’ecatombe sia stata possibile, prima che madornali errori, omissioni, inadempienze siano stati chiariti e compresi. La magistratura accerterà se vi siano state responsabilità penali nell’operato dei dirigenti regionali e nazionali. Per comprendere però cosa non ha funzionato nella sanità lombarda, al di là di facili generalizzazioni e narrazioni in bianco e nero, non basta la magistratura né serve l’ennesima commissione d’inchiesta politica inevitabilmente destinata a diventare occasione di vendetta o di compromesso partitico. Serve una perizia multidisciplinare condotta da esperti epidemiologi e clinici di Università per lo più straniere che accerti scientificamente lo svolgimento dei fatti, i punti critici, le decisioni sbagliate e indichi metodi, strategie, procedure e standard da seguire nel caso tutt’altro che improbabile in cui una nuova ondata virale si ripresenti. Non si tratta di chiedere alla scienza un’impossibile verità. La scienza non ci può dare l’illusoria certezza della fede ma ci offre riflessioni critiche da sviluppare, parametri cui fare riferimento, standard da raggiungere, best practices da seguire. Per capire cosa non è andato bene nella gestione dell’emergenza sanitaria in particolare in Lombardia e cosa fare meglio. In molte altre nazioni vicine e lontane (dalla Corea del Sud a Taiwan alla Germania, all’Austria) hanno fatto (molto) meglio di noi. Impariamo da loro anziché darci troppo facilmente pace. Lo dobbiamo ai nostri morti e ancor di più ai vivi di oggi e di domani.
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