Il tempo vissuto al tempo della pandemia

La pandemia ha modificato il nostro senso del tempo? Non certo il tempo degli orologi, che è ovviamente uguale per tutti, ma, come osserva Borgna nel suo splendido „Il tempo e la vita“, „il tempo dell‘io, il tempo vissuto che è diverso in ciascuno di noi“. Ebbene sì e per la maggior parte di noi, ci dice una ricerca dell‘Università di Bristol pubblicata su Plos one basata su un questionario compilato da 604 partecipanti reclutati via mail e social media durante il lockdown in Inghilterra in primavera. L’80% dei partecipanti ha presentato infatti una distorsione dello scorrere del tempo, per la metà circa di questi il tempo è trascorso più lentamente, per l’altra metà più velocemente. A percepire il tempo in modo rallentato sono state le persone anziane, con maggior stress, ridotta attività e maggiore insoddisfazione. Per le persone più giovani soddisfatte del loro status sociale il tempo è passato più velocemente
Si può discutere sull’esiguità del campione sulla riproducibilità o meno del risultato nella popolazione italiana e su molte altre cose. Ci si può rallegrare che le intuizioni della fenomenologia sulla diversa percezione del tempo vissuto in ciascuno di noi sia finalmente, almeno in parte, dimostrabile e dimostrato dalla scienza sperimentale. Ciò che mi colpisce è piuttosto che una dimensione basilare della nostra percezione della realtà quale quella del tempo sia stata modificata dalla pandemia. È la dimostrazione, qualora ve ne fosse ancora bisogno, che è iniziato un altro tempo, un’altra epoca e non solo per coloro che hanno perso i loro cari o il loro lavoro, ma per tutti noi che abbiamo perso la sicurezza della “normalità” e dobbiamo inventarne un’altra. Cosa facciamo allora con i nostri vissuti modificati di tempo, spazio, normalità, sicurezza, prevedibilità? Aspettiamo che passi la pandemia come fanno i nostri politici che, nell’attesa, sembrano essere divenuti, quanto a decisioni, più impassibili degli psicoanalisti? Oppure ci decidiamo a fare qualcosa con le nostre emozioni, i nostri pensieri, i nostri desideri negati, rimossi, distorti, sublimati in ogni caso modificati dalla pandemia? Anche gli psicoanalisti, cui è obiettivamente difficile rimproverare un eccesso di zelo nell’innovazione, hanno scoperto o meglio rivalutato da un po’ di tempo – peraltro sotto la spinta di una non indifferente pressione economica – un concetto che potrebbe esserci quanto mai utile di questi tempi, perché è quello che consente di digerire, per così dire, metabolizzare le emozioni e trasformarle in pensieri e azioni coerenti. È la mentalizzazione ed è il risultato più maturo di un processo di elaborazione che comincia già fin dalla nascita, anzi dal concepimento e che consente a ciascuno di noi, nell’interazione dapprima con la madre, poi anche con il padre, la famiglia, il gruppo, la società, di metabolizzare le esperienze che viviamo e di trasformarle in sentimenti, pensieri e motivazioni all’azione. È il principale sistema di comprensione, adattamento e, per quel che è possibile, trasformazione della realtà che abbiamo a disposizione per sopravvivere e vivere il meglio possibile. Tale capacità di riflettere sui propri pensieri, emozioni e motivazioni ci è utile anche e soprattutto in tempi di crisi come quelli attuali per superarli. Detto così sembra facile ma la mentalizzazione per essere davvero tale comporta la capacità di essere in contatto con i propri pensieri, emozioni e motivazioni, di potersene anche distanziare, riconoscere che pensieri, emozioni e motivazioni esistono anche negli altri e ne determinano, come per noi, il comportamento e ammettere infine che tali pensieri, emozioni e motivazioni possono essere intuiti e dedotti ma mai conosciuti con assoluta certezza. Mi si dirà che questi sono i soliti vuoti psicologismi degli psicoanalisti e affini e che ora non è tempo di psicologismi ma di salvare pazienti e posti di lavoro. Innegabile. Dal momento però che, almeno fuori da Twitter, non siamo tutti virologi, anestesisti ed economisti, sarebbe forse più utile se, oltre a rispettare le dolorose quanto necessarie misure di prevenzione, ci prendessimo ogni tanto cura dei nostri vissuti piuttosto che dei comportamenti altrui, notoriamente difficili da modificare. Abbiamo svariate opportunità per farlo: sentendoci in angoscia e talvolta in panico a causa del COVID e delle sue conseguenze, possiamo pretendere che l’OMS, il governo, la regione, il sindaco, il medico, il farmacista faccia subito qualcosa per liberarci dalla nostra ansia. Il risultato di questo puntare i piedi (modo teleologico) è quanto meno dubbio. Possiamo rimanere nella nostra (più o meno beata) convinzione che la realtà esteriore sia identica ai nostri vissuti: se siamo euforici, il Covid non esiste, se siamo angosciati la pandemia è la catastrofe da cui nessuno ci potrà salvare se non forse un miracolo. Va da sé che euforici e angosciati non riescono a incontrarsi nemmeno via Zoom. Gli effetti di questa modalità (di equivalenza) sono indubbiamente più evidenti, a tratti folkloristici se non fossero tragici, ma pure di scarsa utilità sociale. Con un po’ di (apparente) destrezza in più possiamo fare quello che si fa su Twitter, fare come se fossimo virologi, epidemiologi, anestesisti, economisti, giornalisti, avvocati o almeno commissari tecnici e discutere con piglio sicuro e arrogante dei dettagli tecnici della pandemia come se riguardasse i marziani mentre i sentimenti che la pandemia suscita in noi ce li teniamo belli stretti, nascosti in qualche parte del nostro corpo, salvo poi esplodere con partner, figli/e, colleghi/e alla prima contrarietà. Gli effetti di questa modalità (come se) sono, va riconosciuto, sui Social Media assai apprezzati, difficilmente hanno però ripercussioni significative sul quotidiano. Abbiamo infine la possibilità, certo non l’obbligo, di fare quello che cominciano a fare i bambini dai cinque anni in poi: appunto riflettere sui loro pensieri, emozioni, motivazioni, confrontarsi con quelle altrui immaginando per un momento che abbiano per gli altri la stessa importanza che hanno per noi le nostre, accettare che sia le nostre come quelle altrui sono opache, ambivalenti mai conoscibili con certezza come le intenzioni dei nostri gatti. Forse, se facessimo ogni tanto così, se mentalizzassimo quando siamo in coda in auto, aspettiamo il/la partner, il tram, bus, treno, cerchiamo invano di addormentarci o di svegliarci, sapremmo dare un nome ai nostri vissuti, sapremmo se siamo tristi o arrabbiati, ansiosi o impazienti. Magari riusciremmo anche a capire cosa ci pesa di più e cosa ci fa stare meglio, che effetto ha il nostro stato d’animo sul/la nostro/a partner, sui/sulle nostri/e figli/e. Con un po’ di fortuna ci riuscirebbe forse di raccontare ai/alle nostri/e nipoti cosa sta succedendo nel mondo e dentro di noi e forse in quel momento riusciremmo a immaginarci anche un futuro.
Immagine tratta da: Der Verein zur Verzögerung der Zeit 
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