Le manganellate dell’ equivalenza

A tutti noi è capitato da bambini di aver paura che un fantasma si nascondesse dietro le tende, un mostro sbucasse dal buio, un coccodrillo si nascondesse sotto il nostro letto. Non ci bastava sbirciare dietro le tende, accendere la luce, guardare sotto il letto per calmarci perché eravamo certi che tutto quello che pensavamo e sentivamo fosse vero, che il nostro pensiero equivalesse cioè alla realtà. Proprio per questo (nella terapia basata sulla mentalizzazione) si parla di una modalità di equivalenza per indicare quel modo infantile di approcciarsi a sé e al mondo, che insorge intorno ai due anni e persiste, insieme ad un’altra modalità, fino si cinque anni, quando il bambino diventa capace di mentalizzare cioè di crearsi un’immagine abbastanza adeguata e corretta di sé stesso, degli altri, della realtà e delle dinamiche che intercorrono tra loro. Una volta arrivato a mentalizzare il bambino potrà distinguere l’interno dall’esterno, i suoi sentimenti e i suoi pensieri dalla realtà e si renderà conto di quanto irrealistiche fossero le sue precedenti paure. Ciò non toglie tuttavia che questa modalità di equivalenza, così come le altre che precedono la mentalizzazione, rimangano dentro di noi e facciano la loro comparsa non appena lo stress emotivo ci privi temporaneamente della capacità di riflettere razionalmente su di noi e sulle nostre decisioni. Così può succedere che nell’angoscia della pandemia crediamo che le nostre convinzioni sui pericoli del vaccino siano la realtà, la nostra paura sia anche quella di tutti gli altri etc. Non solo. Tale modalità di equivalenza scatta spesso quando i temi sono molto emozionali, lo spazio e il tempo per la riflessione sono limitati ed è molto più facile reagire emozionalmente che riflettere. I social media con questa modalità ci vanno a nozze o noi con loro, a seconda della prospettiva. Di fronte al presunto caso di diritto conculcato, basta gridare “ingiustizia”, di fronte al sospetto d’abuso “vergogna”, all’ennesima tragedia apparentemente prevedibile “mai più”. Non che queste emozioni e reazioni siano ingiustificate o incomprensibili, ma sono talmente scontate, automatiche, rigide e monocordi da allontanare da ogni riflessione e avviare invece una reazione a catena puramente emotiva. È il fenomeno del contagio emotivo che sta alla base di tanto situazioni di viralità sui SM ma anche off-line. È naturalmente scontato che i più giovani nella loro impulsività e nel loro quanto mai indispensabile desiderio di cambiare il mondo siano più facilmente vittime di tale contagio emotivo, di tale modalità di equivalenza. Spetta però a chi giovane non è più, anziché soffiare sul fuoco, avviare la riflessione. È importante e doveroso far propri i sentimenti di indignazione dei giovani di fronte ad ogni ingiustizia ma subito dopo porre e porsi domande, cercare di capire e di ragionare anziché saltare a conclusioni segnate dall’“equivalenza”. Certo non può e deve succedere che un ragazzo/a muoia durante lo stage in ditta nel corso dell’alternanza scuola/lavoro ma è questa una ragione valida per abolire l’alternanza scuola lavoro? Non si dovrebbe piuttosto migliorare da subito la sicurezza sul lavoro e riflettere pacatamente su scopi, metodi, efficacia dell’alternanza e di eventuali alternative? Certo non è ammissibile che un/a docente faccia presente l’inadeguatezza del modo di vestire di un/una studente/ssa con una frase offensiva, facendosi contagiare da quella stessa volgarità che avrebbe verosimilmente voluto condannare. Ma rivendicare i propri diritti senza riflettere sulla necessità di norme condivise di comportamento è quanto meno semplicistico e unilaterale, comprensibile forse a 15 anni ma difficilmente a partire dalla maggior età, in cui bisogna assumersi la responsabilità delle proprie azioni. Se riduciamo ogni questione complessa all’alternativa giusto/sbagliato, vittima/carnefice, potente cattivo/impotente buono, se ogni diritto diviene inviolabile, non contestualizzato nell’ambito di un conflitto tra diversi diritti e responsabilità, rimaniamo in una modalità di equivalenza e priviamo il dibattito di qualsiasi possibilità di riflessione critica. Se il mio pensiero, il mio sentimento è la realtà, non è possibile nessun confronto con l’altro e nemmeno con la realtà stessa. Di per sé i social media potrebbero essere uno straordinario luogo di riflessione e di confronto tra tutti coloro che vogliono partecipare al dibattito. In realtà sappiamo che quanto più emozionali sono i temi trattati, tanto più radicale e riduttiva, se non addirittura aggressiva e violenta è la contrapposizione che viene a crearsi – il ché ripropone a mio avviso la riflessione sull’opportunità di un mediatore “ufficiale” del dibattito social. Allo strabordante potere dell’ equivalenza si aggiunge poi una tendenza all’ omologazione e alla conformità tale per cui per non sentirsi fuori dal gruppo, siamo portati a sostenere o quanto meno ad accettare tacitamente l’opinione della maggioranza pur non condividendola, in tutto o in parte. Se tutti o almeno la maggioranza grida allo scandalo, all’ingiustizia, all’abonimio, è difficile sostenere pubblicamente posizione diverse (a meno di non voler fare, con altre motivazioni ed interessi, il bastian contrario) con il rischio di venir messi alla gogna. Ma proprio in virtù di questi processi di equivalenza e di omologazione, si ottiene l’effetto opposto a quello desiderato. Si favorisce il costituirsi di una splendida facciata in cui tutti sono apparentemente a favore dei diritti di tutti – il ché è già di per sé singolare – ma si evita, per paura, o quieto vivere, ogni riflessione approfondita e ogni dibattito sul merito della specifica situazione che ha aperto il conflitto. Così facendo si nega la possibilità stessa di rendersi conto del conflitto, di analizzare senza pregiudizi da quali emozioni scaturisce, cosa implica, che effetti comporta, quali siano le diverse possibilità di risoluzione. Anziché favorire con la pazienza della tolleranza un faticoso dibattito argomentato e approfondito, dagli esiti incerti, si preferisce ancora ricorrere alla velocità e all’apparente certezza del giudizio morale o meglio moralistico, con la differenza che se una volta la morale era quella del dovere a ogni costo, oggi sembra essere diventata a prima vista quella del diritto ad ogni costo. Come stiano veramente le cose lo rivelano però le manganellate  della polizia agli studenti, giustificate dalle presunte infiltrazioni di violenti alle manifestazioni studentesche. Quando dunque si manifesta il conflitto che si è sempre voluto nascondere, non lo si risolve con il dialogo, per quanto incerto e difficile, ma si evoca la violenza altrui per giustificare la propria, che in questo caso viene da quello stesso Stato che proprio i diritti di tutti i suoi cittadini dovrebbe difendere.

Immagine: CorriereUniv