La ferita di venir ignorati

Cosa ci accade quando noi parliamo e il nostro interlocutore/interlocutrice non ci ascolta, non ci percepisce neanche di striscio, ci ignora, non dimostra alcun interesse né tantomeno empatia nei nostri confronti? Lo sappiamo tuttə, ci sentiamo offesə, feritə e reagiamo spesso con irritazione, rabbia, e, se la cosa persiste e si ripete, con rassegnazione, disinteresse, progressiva svalutazione fino a non prestare più attenzione alla conversazione e fiducia al rapporto con quell’interlocutore/interlocutrice.
Ora un’ interessante ricerca, denominata F.I.O.R.E. 2 (Functional Imaging of Reinforcement Effects) realizzata dalla Fondazione Giancarlo Quarta Onlus di Milano in collaborazione con l’Università di Padova e il Padova Neuroscience Center (Pnc) dimostra quali aree cerebrali si attivano nella nostra testa quando veniamo ignorati e sono dunque responsabili dei sentimenti sopra descritti e a tuttə noi ben noti.
I ricercatori hanno esaminato l’attività – o meglio le differenze di attività – di diverse reti di neuroni mentre i soggetti dovevano osservare delle vignette relative a relazioni sociali caratterizzate da stimoli positivi, neutri o negativi. Un esempio – che traggo dall’articolo che Danilo Diodoro dedica alla ricerca sul Corriere della Sera – “è l’immagine di una persona che sta salendo sul treno con una valigia pesante: l’individuo dietro di lei sbuffa e non aiuta (rinforzo negativo), resta immobile e aspetta (atteggiamento neutro), sorride e aiuta a caricare la valigia (rinforzo positivo)”.
La ricerca ha dimostrato che le prime aree cerebrali che si attivano sono quelle temporali, che appartengono al circuito della teoria della mente e sono deputate al riconoscimento della situazione di interazione sociale, dunque alla comprensione del comportamento altrui. Successivamente si attivano le strutture del sistema limbico e del talamo, quelle cioè che imprimono il carattere emotivo, gioioso o triste, rilassato o concitato, irritato etc alla percezione. Da ultimo si attiva la risposta motoria, quella che da cioè luogo all’azione. Nell’esempio della vignetta citata, a seconda della reazione dimostrata dall’individuo che sta dietro (sbuffa, non fa nulla, sorride e aiuta) il sistema limbico, quello deputato alla colorazione emotiva della percezione, ci farà provare appunto un dolore paragonabile a quello fisico, indifferenza o una piacevole gratitudine (come la ricerca F.I.O.R.E.1, volta a valutare gli effetti di una comunicazione positiva e gratificante, aveva già dimostrato).
I ricercatori e i medici della fondazione Giancarlo Quarta Onlus di Milano interpretano i risultati di queste ricerche (F.I.O.R.E. 1 e 2) con particolare riferimento alla relazione medico-paziente e all’interno di un modello di matrice neocomportamentista, indicato come modello Relazionale Ippocrates, da loro concepito (vd. Atti del convegno )
Ora, premesso che ognuno è naturalmente libero di interpretare i risultati delle ricerche, a maggior ragione se proprie, come meglio crede, a me, psichiatra di provincia, lontano dalla ricerca, sembra che tali risultati di neuro-imaging assumano ancora maggiore rilevanza se visti all’interno di un concetto molto più ampio che è quello della mentalizzazione e della terapia basata sulla mentalizzazione, di cui avevo già scritto in altre occasioni. Riassumo qui brevemente. Con il termine di mentalizzazione Peter Fonagy e Antony Bateman (2006) indicano un‘ attività mentale immaginativa che porta a percepire ed interpretare i comportamenti propri ed altrui come il risultato di stati mentali interni ed intenzionali, e cioè appunto come il risultato di desideri, credenze, aspettative, bisogni, obiettivi e sentimenti. In altre parole mentalizzare può essere definito come quella facoltà che permette di vedere se stessi “dall’esterno” e gli altri “dall’interno”. Non a caso i tre sistemi neuronali che sarebbero sarebbero appunto responsabili dei processi di mentalizzazione Mentalizzazione (Martin Debbané: Dalla teoria alla pratica clinica) sono in gran parte sovrapponibili a quelle evidenziate dagli studi F.I.O.R.E.1 e 2 e cioè il sistema limbico, il sistema dei neuroni specchio e il sistema di mentalising nel senso cognitivo del termine. Il sistema limbico, (amigdala, talamo, ipotalamo e altri centri) che condividiamo con i mammiferi, è il sistema di produzione ed elaborazione per eccellenza delle nostre emozioni, che appunto colorano la nostra percezione della realtà. Il sistema dei neuroni specchio (regioni frontali e parietali laterali, regioni mediali e insula) sarebbe responsabile della simulazione automatica che scatta alla semplice vista di un movimento o di un’espressione dell‘altro da cui è percepibile un’intenzione. Si tratta dunque di un sistema che ci consente di comprendere e attribuire spontaneamente, automaticamente all’altro emozioni e intenzioni. Infine il sistema del mentalising cognitivo (corteccia prefrontale mediale e giunzioni temporo-parietali) riunisce le aree cerebrali destinate soprattutto al trattamento dell’informazione astratta e simbolica riguardante gli stati mentali di sé e degli altri.
Come è facile intuire dunque, quando veniamo rinforzati o invece feriti dall’atteggiamento del nostro interlocutore, scattano in noi dapprima processi psichici di mentalizzazione volti a comprendere la situazione sociale e poi emozioni la cui tonalità (gratificante o invece frustrante) dipende dal fatto di aver ricevuto o meno comprensione ed empatia dall’interlocutore/interlocutrice. La terapia basata sulla mentalizzazione, che deriva in gran parte dall’osservazione scientifica della relazione madre-bambino e dalla teoria dell’attaccamento, individua proprio nell’interazione madre-bambino il prototipo di ogni tipo di relazione e soprattutto di ogni tipo di apprendimento. Fin dal nostro primo contatto con la persona che ci ha generato o comunque della persona che si prende cura di noi lo scambio di informazioni ed emozioni con l’altro/a procede sempre secondo lo stesso modello: richiamo dell’attenzione altrui (attraverso ostensive cue: rivolgere lo sguardo, sorridere all’interlocutore/interlocutrice, chiamarlo/a per nome etc), rispecchiamento (comprensione sintona e sincrona di quello che l’altro prova) e marcatura, sottolineatura cioè del nostro stato d’animo volta a far comprendere all’altro/a che abbiamo capito il suo/a stato emotivo ma che il nostro è un po’ diverso, nostro appunto. Facciamo un esempio: il baby piange, la mamma (non stressata e non disturbata da propri problemi psichici) si sintonizza sulla lunghezza d’onda del baby, emette suoni molto simili ma con una sfumatura rasserenante che spesso sono in grado di trasformare il pianto in un abbozzo di melodia. Più avanti negli anni il bambino si rivolgerà ancora sofferente e magari piangente alla mamma quando si sarà ferito o sarà stato ferito, fisicamente o psichicamente, dagli altri. La mamma rispecchierà ancora il suo malessere con l’espressione del viso, il tono della voce, la scelta di parole adatte ma con impronterà con sensibilità la sua reazione a far comprendere al bambino che la ferita è superabile, passerà presto per lasciare il posto a nuove gioie. In tutte le interazioni sociali, dalle più semplici alle più complesse e strutturate come quelle dell’apprendimento/insegnamento, dall’infanzia fino alla vecchiaia più avanzata, le tappe dello scambio emotivo e cognitivo rimangono le stesse: attenzione manifesta, rispecchiamento (sincrono e sintono, cioè tempestivo e corretto nel l’interpretazione del messaggio) marcatura cioè invio all’altro del messaggio che abbiamo capito il suo messaggio e che il nostro è un po’ diverso. Sulla base di queste premesse si capisce meglio, a mio avviso, che cosa ci ferisce o invece ci rinforza nello scambio con l’altro sia che si tratti di una breve conversazione alla fermata del bus, di un rapporto di fiducia medico-paziente o ancora di un delicato rapporto di coppia.
Perché il/la paziente si senta capito dal proprio medico non è sufficiente, come evidenziato negli atti del congresso citato, il tempo – che pure è assolutamente necessario – ma anche che vengano comprese e rispettate nel loro rapporto queste tre fasi di interazione. Tali tre tappe (attenzione, rispecchiamento, marcatura) sono anche quelle che, ripetute all’infinito, rendono una comunicazione utile e fruttuosa, un rapporto vivo e stimolante, i rapporti tra persone umani.

Immagine: Raffaello, Madonna Garvagh o Aldobrandini