Il giorno dopo

Sembra che il femminicidio di Giulia Cecchetin ad opera di un giovane uomo di 22 anni, Filippo Turetta sia riuscito, anche a detta della stampa estera a mobilitare addirittura la politica e gli uomini italiani nella lotta contro la violenza sulle donne, cosa fino ad oggi impensabile. Oltre a misure di repressione sono state finalmente approvate, in una rara collaborazione tra maggioranza e opposizione, anche misure di prevenzione secondaria e provvedimenti educativi, peraltro generici, un‘„educazione all‘affettività“ su base volontaria e a partire dalle scuole superiori. Altri Paesi invece „possono vantare un programma di Comprehensive Sexuality Education (Cse) curricolare a scuola, ossia percorsi di educazione affettiva sessuale che … comprende l’educazione alle emozioni, alle relazioni, al rispetto e al consenso… con l’obiettivo di fornire un insegnamento trasversale e unitario incentrato sugli aspetti cognitivi, emozionali, fisici e sociali della sessualità, facendo leva sulle materie dei curricula scolastici e non restando solo come insegnamento a sé stante 

Patriarcato 

Negli ultimi giorni uomini italiani che fino a ieri non potevano sentire la parola patriarcato, i la pronunciano compunti e vecchie interpretazioni feministische del femminicidio come reazione alla crisi del patriarcato trovano nuova vita negli articoli di giornalisti fino a ieri disinteressati al tema, mentre altri citano i loro pezzi di qualche anno prima a dimostrazione di quanto fossero stati dei benemeriti battistrada ad affermare che il problema della violenza sulle donne è un problema di noi uomini. Meglio tardi che mai, si potrebbe dire, se non fosse che in Italia la tendenza ad adattarsi alla mentalità dominante è una moda che non tramonta mai ed è associata più al trasformismo che ad una vera ed innovativa trasformazione.

Il predominio maschile 

Un dato cronologico aiuta a comprendere quanto sia lento, difficile e ancora incompleto il cammino verso una parità effettiva. Il saggio „il predominio maschile“ nel quale il sociologo Bourdieu evidenziava, sulla base delle innovative riflessioni femministe che l‘avevano preceduto, come il sistema di potere in cui viviamo sia una costruzione mentale maschile della quale le donne stesse divengono vittima è, anche se di poco, del secolo scorso, essendo stato pubblicato nel 1998.

Desiderio di possesso 

Scriveva allora Bourdieu:” Se il rapporto sessuale appare come un rapporto sociale di dominio, ciò dipende dal fatto che è costruito attraverso il principio di divisione fondamentale tra il maschile, attivo, e il femminile, passivo, e che questo principio crea, organizza, esprime e dirige il desiderio: quello maschile come desiderio di possesso, come dominazione erotizzata, quello femminile come desiderio della dominazione maschile, come subordinazione erotizzata o addirittura, al limite, come riconoscimento erotizzato del dominio.” Ragion per cui, conclude Bourdieu “la rivoluzione simbolica invocata dal movimento femminista non può ridursi a una semplice conversione delle coscienze e delle volontà” ma deve comportare una trasformazione delle strutture che producono e perpetuano tale dominio. 

Patriarcato inconscio e femminismo 

Il patriarcato non è dunque una legge, un comportamento, una singola istituzione da abrogare, abolire, eliminare ma un sistema di potere che si auto-perpetua, un ordine simbolico nel quale siamo immersi, che non vediamo, se non in parte, e del quale perciò non siamo (pienamente) coscienti. Un inconscio che deve essere trasformato dapprima in conscio per poter poi essere cambiato. È grazie alle lotte delle donne e in particolare delle femministe che siamo divenuti consapevoli di alcuni dei soprusi del patriarcato, dalla disparità di trattamento salariale e di condizioni economiche (una donna su 4 non ha il conto in banca) alla discriminazione sociale, dalla mancata parità linguistica all’inadeguata rappresentanza femminile ai vertici del potere politico, economico, scientifico, fino alle prevaricazioni, allo stalking, alle violenze sessuali e domestiche e infine ai femminicidi.

Aspetti politici, economici, culturali, sociali del patriarcato 

Vi sono quindi aspetti del patriarcato ormai noti, per i quali si tratta di apportare le necessarie trasformazioni legislative, economiche, sociali e culturali perché la parità tra uomo e donna da teorica diventi reale. In questi ambiti non sono più tollerabili le sole parole. Va fissata un’agenda di leggi, disposizioni, provvedimenti corredati da adeguati mezzi finanziari perché anche il nostro paese, finalmente, divenga un paese in cui le donne non solo non debbano più avere paura ma possano vivere la vita che desiderano in libertà e rispetto, senza limitazioni, disparità e discriminazioni di alcun genere.

Il patriarcato che è in noi 


Ma vi è anche un altro ambito, quello personale, in cui spetta ad ognuno di noi maschi scoprire il patriarca che è in noi. È nei gesti quotidiani, nei rapporti con la nostra partner, gli amici, le amiche, i colleghi, le colleghe, nelle parole in libertà, nelle battute, nelle fantasie che si evidenzia il desiderio di dominio, la mancanza di rispetto che è in ognuno di noi. Non si tratta di imparare a memoria un nuovo codice di comportamento, una nuova etichetta ma di renderci conto che il nostro atteggiamento verso l’altro sesso è, anche, un costrutto sociale, modificabile. Io ho cominciato a capirlo solo quando, a 32 anni, mi sono trasferito in un Paese, la Svizzera, meno patriarcale o almeno diversamente patriarcale del nostro e ho dovuto fare i conti con un’altra mentalità. Mi ricordo il mio stupore ad esempio quando ho constatato che qui qualsiasi minaccia anche scherzosa viene presa sul serio e come tale interpretata e trattata. Ho cominciato a comprendere qualcosa di più degli effetti a lungo termine della violenza maschile quando ho letto, con angosciata commozione, Donne che si fanno male di Dusty Miller del 2005.

Donne che si fanno male

La psicologa americana, ella stessa vittima di abusi, scrive
“Immaginate un lungo muro di marmo nero coperto di iscrizioni, a perdita d’occhio. Immaginate una trapunta ricamata con nomi e ritratti di morti, che copra molti ettari di terreno. Non sono caduti in guerra, e nemmeno vittime dell’Aids: i nomi che leggiamo su quel muro, su quella trapunta, sono quelli di donne morte per mano propria, uccise da alcol, droga, anoressia, bulimia, diete eccessive, dalle conseguenze di bruciature o tagli autoinflitti e da altri cento modi di farsi male.
Alcune si sono suicidate, ma forse sarebbe più corretto considerarle assassinate, perché nell’infanzia hanno subito abusi sessuali, violenze fisiche, terrorismo psicologico, oppure sono state abbandonate. Sono centinaia di migliaia di donne che dovrebbero essere ricordate come coraggiose vittime di una guerra o di un’epidemia e che invece sono biasimate per essersi tolte la vita, in quanto le
lesioni fatali sono state inferte dalle loro stesse mani. Ma tali lesioni erano conseguenza diretta di ferite che genitori, nonni e altri membri della famiglia avevano causato loro durante l’infanzia. Ferite che non sono mai guarite. Anzi, che col tempo si sono rivelate mortali.”

Tutti i patriarcati individuali sono diversi 


Probabilmente a causa della mia deformazione professionale, ritengo che la ricerca e la trasformazione personale del patriarcato che è in noi sia altrettanto importante di quella sociale ed istituzionale. Il patriarcato non è infatti uguale per tutti noi, assume forme diverse in ciascuno di noi, più manifeste o più subdole, più incerte o più brutali, più o meno socialmente accettabili. Non è l’idea del patriarcato ad uccidere, è la sua incarnazione in uno di noi, con le sue specifiche caratteristiche fisiche e psicologiche, a farlo. E prima del femminicidio ci sono, nel 70% dei casi, minacce e stalking e prima ancora soprusi, litigi, offese, umiliazioni, mancanza di rispetto. 


Educazione e mentalizzazione 

Partire dall‘educazione è dunque ottima cosa, a condizione che sia chiaro cosa si vuole ottenere e come raggiungerlo. Affettività è un concetto astratto, che sembra modellato su misura per non fare esplicito riferimento alla sessualità e per lasciare aperte tutte le possibilità alla sua realizzazione educativa, con inevitabili contese tra pedagogisti/e, psicologi/he, psichiatri/e. Risulta peraltro a tutti evidente che se di educazione si tratta, essa dovrebbe cominciare dall’avvio della scolarizzazione, dunque dalle scuole elementari se non dall‘asilo. Non dovrebbe inoltre limitarsi alla sola trasmissione di più corrette regole di comportamento nei confronti delle ragazze e delle donne all’insegna di nobili ideali. Dovrebbe invece diventare l’occasione perché bambini/e prima e ragazze/i poi facciano esperienza di discussioni e conflitti che avvengono nel pieno rispetto reciproco. La cultura del confronto, del conflitto civile tra legittime diversità di vedute, l’elaborazione delle emozioni più difficili quali quelle della vergogna, della frustrazione, della rabbia, dell’aggressività devono poter essere sperimentate e vissute. Non bastano i precetti morali del non si fa, serve l’esperienza vissuta del come si fa ad accettare la debolezza, a superare la frustrazione, a rispettare sempre la libertà dell’altro/a. Da questo punto di vista la psico-educazione che fa riferimento alla mentalizzazione sarebbe di straordinaria importanza perché consente ad ognuno/a di sperimentare individualmente e in gruppo un percorso in cui si impara a conoscere sé stessi e gli altri/e e a comprendere gli stati mentali (pensieri, affetti e desideri) che sono responsabili dei nostri comportamenti e di quelli altrui. Non fidandosi solo dell’empatia, la mentalizzazione invita a rimanere aperti, a lasciarsi sorprendere dalla percezione altrui, senza mai darla per scontata, rispettando la diversità e dunque la libertà di ognuno/a di noi.