Mentalizzare l’atrocità

Le notizie e le immagini degli ultimi giorni hanno travolto e sconvolto molte/i di noi. Apprendere e vedere che persone inermi ed addirittura bambine/i sono state brutalmente assassinate e rapite in un’atmosfera di esaltata furia omicida suscita una reazione di incredulità e sgomento prima ancora che di sdegno, impotenza e rabbia. Come è possibile – ci chiediamo – che esseri umani compiano bestialità simili?

Apprendere e vedere che centinaia di migliaia di persone (1,2 Milioni) vengono costrette da uno Stato che si definisce democratico, attraverso la privazione dei più elementari diritti umani, a lasciare in meno di 24 ore le loro case sospinte verso il nulla per non incorrere nelle conseguenze di qualcosa che appare sempre meno come un’azione militare mirata e sempre più come una vendetta nei confronti di una intera popolazione, lascia altrettanto sgomenti, increduli, impotenti e irati.

Mentalizzare 


Eppure i sentimenti scatenati dall’orrore degli uni e degli altri, anche se molto simili tra loro, sembrano giacere in territori radicalmente contrapposti, tali da impedire qualsiasi comprensione reciproca, come se l’opposizione dei due popoli fosse talmente profonda e radicale da tradursi in una guerra di opinioni, emozioni e atteggiamenti anche tra i sostenitori degli uni e degli altri. È come se ogni fazione non riuscisse nemmeno ad immaginare la rappresentazione mentale dell’altra. In queste condizioni, che derivano naturalmente da complesse vicende storiche, la mentalizzazione è bandita, proibita, laddove per mentalizzazione si intende la capacità immaginativa di pensare al proprio comportamento e a quello degli altri in termini di stati mentali (pensieri, sentimenti e credenze) che ne sono alla base. L’incapacità di mentalizzare, cioè di immaginare e comprendere l’altro, i suoi pensieri, desideri, emozioni, va di pari passo con la sfiducia (epistemica) di accogliere nuove conoscenze offerte dall’altro e di riconoscerne la rilevanza personale. Immaginazione e comprensione dell’altro da un lato e fiducia nella possibilità di imparare dall’altro vanno infatti di pari passo.

Attaccamento sicuro ed insicuro


Questa sincronia di processi psichici ha le sue radici nel rapporto madre (caregiver) – bambino. Sono proprio la sicurezza, la sintonia e la finezza del rapporto che si instaurano tra la madre e il bambino a consentire che quest’ultimo/a si rivolga alla madre quando questa, mediante la mimica facciale e del corpo (ostensive cues) segnala al bambino/a di avere informazioni importanti da comunicare. Tale comunicazione trasmette al tempo stesso al bambino il messaggio che la mamma è interessata alla sua sopravvivenza e disponibile ad offrire tutte le risorse necessarie perché lui stia bene e possa affrontare con successo la propria vita. Se invece la sintonia tra la mamma è il bambino è insufficiente e inadeguata, si instaura un attaccamento insicuro tra i due che si tradurrà poi in un rapporto insicuro con tutte le altre persone e con quello che le altre persone possono offrire. Se l’insicurezza del legame si traduce in ansia e in ricerca spasmodica dell’altro si assisterà ad una modalità di rapporto estremamente emozionale con tendenza ad accettare inizialmente tutto quello che gli altri ci trasmettono in una sorta di credulità acritica che si alterna però all’insicurezza e alla ricerca di sempre maggiori conferme. Quando invece l’insicurezza del legame madre-bambino si manifesta con l’evitamento della madre stessa e di quello che lei ha da offrire, il risultato finale sarà quello di un atteggiamento ipercritico nei confronti degli altri, fino alla sfiducia (epistemica) totale. 


Evoluzione e attaccamento 

L’evoluzione favorisce di per sé l’instaurarsi di un attaccamento sicuro e di una fiducia (epistemica) tale da consentire la collaborazione con l’altro e l’acquisizione e la trasmissione del sapere. Tuttavia in alcuni contesti storici, sociali e culturali in cui predomina la diffidenza, l’ostilità come nel caso di due popolazioni da tempo in guerra può essere evolutivamente utile tramettere l’ipervigilanza se non addirittura la sfiducia nell’altro, che è anche l’esperienza prevalente che in questi casi è stata fatta dall’individuo. Diversi studi (tra cui Aival, E. et al. 2019). dimostrano che in tali contesti si crea pertanto un circolo vizioso tale per cui l’ambiente sociale e culturale, storicamente determinato, induce iper vigilanza e sospetto, l’esperienza individuale è spesso quella della delusione e del dolore, per cui la trasmissione del modello di legame madre-bambino così come quella del sapere avverrà all’insegna della iper vigilanza se non della sfiducia epistemica. 


Contesti di non mentalizzanti

In queste condizioni non viene favorita la mentalizzazione cioè la facoltà di immaginare oltre che sé stessi anche gli altri, i loro pensieri, le loro emozioni. Va così perduta quella che è la normale tendenza dei bambini ad imparare dagli altri e che è stata definita una pedagogia naturale (Csibra & Gergely 2011). In tali contesti non si arriva dunque mai a una modalità di coordinazione e cooperazione, alla modalità del noi, ma tutto ciò che proviene dagli altri viene percepito come inaffidabile o malevolo. Così facendo non siamo in grado di mentalizzazione e dunque comprendere gli altri ma neanche di imparare qualcosa dalle rappresentazioni che gli altri si fanno di noi. In un contesto storico di guerra ad esempio sarà difficile per il bambino imparare a vedere il comportamento aggressivo come derivante dalla propria rabbia con tendenza dunque ad immaginarlo come conseguenza della cattiveria altrui. Non solo, se la fiducia crolla e prevalgono la sfiducia e il sospetto, cede anche la fiducia in sé stessi di essere responsabili dei propri vissuti. Di conseguenza, come scrivono c. Campbell e E. Allison in un capitolo del libro fiducia epistemica di P Fonagy e T Nolte “Fiducia epistemica”, l’individuo non è in grado di riconoscere sé stesso, e non riconosce neppure la propria efficacia. Tantomeno vengono riconosciuti gli altri e i loro segnali di comunicazione. Un sistema di questo tipo, che non mentalizza genera rapidamente paura, se non panico, il ché blocca a sua volta ogni processo di mentalizzazione e di comprensione. 


Un sistema politico Borderline

È, semplificando, come se un sistema politico si mettesse a funzionare con le modalità di un disturbo Borderline, con un’estrema tendenza cioè a dissociare tra parti buone e cattive, a sentirsi costantemente minacciato dall’altro e a reagire di conseguenza con l’aggressione in un clima di perenne emergenza. Ciò si traduce in una sfiducia generalizzata verso le istituzioni, percepite come estranee ed ostili, ma determina anche la sfiducia nell’auto-efficacia di sé stessi e dunque nella possibilità di cambiare in meglio il sistema. Inoltre le manifestazioni che segnalano il tentativo degli altri di comunicare vengono ignorate e/o interpretate come potenzialmente invasive ed ostili. Ognuno è prigioniero della propria soggettività, incapace di accedere a quella altrui e pertanto privo di tutte quelle diverse prospettive ed emozioni che rendono fertile il pensiero. È facile riscontrare, come fanno gli autori, che “ la mancata mentalizzazione dell’altro e la conseguente progressiva rottura della comunicazione sociale possono innescare un discorso socio-politico destabilizzante caratterizzato da un crescente rifiuto epistemico dell’altro”.
Per quanto ingenuo possa sembrare, se vogliamo cambiare le cose, almeno in un ambiente per fortuna non direttamente coinvolto nella guerra ma che ne viene influenzato ed a sua volta la influenza, dobbiamo creare le condizioni per vivere in uno spazio che favorisca lo sviluppo delle capacità di mentalizzazione il ché comincia ad esempio proprio dal tentativo di immaginare gli altri, le loro ragioni ed emozioni e di rimanere aperti alle rappresentazioni che gli altri si fanno di noi.