Il seguito dei traumi

Ho letto che la donna appesasi ad un balcone del Bataclan a Parigi per sfuggire ai terroristi era incinta. Accanto alla gioia – ammesso che questa parola possa trovar posto in una strage – di sapere che lei è stata salvata, da un altro compagno di sventura, sorge spontanea in ognuno che legga la notizia – e chissà quanto più in lei – la preoccupazione per la sorte del bambino.
E più in generale dei/lle figli/e delle persone che hanno subito un trauma. Quali le conseguenze psicologiche per loro ? Come porvi rimedio o prevenirle?
La trasmissione transgenerazionale del trauma, che forse ciascuno di noi ha intuito scavando nella storia della sua famiglia, che gli scrittori hanno raccontato nelle grandi saghe familiari, che la psicologia ha ipotizzato, è ora un dato di fatto biologicamente dimostrato. Che riguarda non solo i/le figli/e ma anche i/le nipoti della generazione che ha subito il trauma.
Già studi epidemiologici umani avevano suggerito che l’esposizione in gravidanza a fattori ambientali tra cui lo stress è fortemente associata a un aumentato rischio di disturbi dello sviluppo psichico tra cui il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), schizofrenia, disturbi dello spettro autistico.
Ora studi animali hanno dimostrato chiaramente una trasmissione dello stress anche in linea paterna, non legata dunque alle condizioni della gravidanza. È stato ad esempio evidenziato che esperienze stressanti subite dai topi maschi prima dell’accoppiamento si trasmettono alla prole tramite una riprogrammazione delle cellule germinali.
Topi maschi esposti a uno shock (stress da paura) associato ad uno specifico odore trasmettevano quest’effetto condizionante sia alla prima che alla seconda generazione. Topi maschi sono stati inoltre esposti ad uno stress cronico variabile per 6 settimane sia nella fase puberale che in quella adulta e successivamente fatti accoppiare con topi femmine di controllo. Ebbene lo stress sia durante la pubertà che durante l’età adulta era in grado di riprogrammare lo sperma e di generare una prole di maschi e femmine con un carente funzionamento dell’asse dello stress ipofisi-ipotalamo- surrene.
È il mondo dell’epigenetica  che ci sta da poco aprendo a nuove conoscenze.
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Immagine tratta dallo studio citato.
Le trasformazioni trasmesse alla prole non riguardano infatti i geni, che rimangono invariati, è il fenotipo a venir modificato a seguito di alterazioni a carico ad esempio del RNA la molecola che trascrive le informazioni genetiche contenute nel DNA in una lingua atta a produrre enzimi e proteine che regolano a loro volta l’espressione delle informazioni ereditarie. Lo dimostra brillantemente un esperimento ancora sui poveri topolini che avevo già citato dal quale risulta che precoci traumi indotti nei topi hanno prodotto effetti negativi sull’intera loro vita che si sono trasmessi anche ai loro figli e ai nipoti. Si è potuto stabilire che tale trasmissione era causata appunto da alterazioni del mRNA nello sperma, nel sangue e nel cervello dei topolini mentre le sequenze del loro DNA rimanevano invariate.
Certo noi umani siamo infinitamente più complessi e – più crudeli – dei topi e riusciamo meglio a immaginarci la trasmissione dello stress o del trauma a livello psicologico. La psicanalisi, avvezza, in assenza di dati neurobiologici per quai un secolo, ad inventare – come la storia manzoniana – ci ha fornito ipotesi e concetti preziosi anche per comprendere meglio cosa può succedere tra una madre traumatizzata e il suo bambino. Una madre traumatizzata, – scrive D Atmanspacher sul l’attuale Balint-Journal – soprattutto se priva di adeguata assistenza, fatica a percepire adeguatamente i bisogni del bambino e a rispondervi. Accade anzi spesso che la vicinanza e la dedizione del bambino vengano inconsciamente “usate” per stabilizzare il proprio sé, riversando sul bambino affetti insopportabili e combattendoli in lui. Si realizza cioè uno spostamento inconscio sul bambino del contenuto del trauma e soprattutto della sua negata carica distruttiva, della sua tendenza a spegnere l’umano che è in noi. Non solo il bambino ricorda la madre al trauma ma in qualche modo può divenire lui stesso il trauma dal quale la madre cerca (tragicamente) di liberarsi. È come se il costante tentativo di riparare la ferita (questo significa trauma, dal greco τραύμα) si scontrasse con la realtà di una lacerazione troppo estesa che mina la stessa fiducia nella possibilità della riparazione.
Le ricerche di terapeuti e analisti che di sono occupati del trattamento di sopravvissuti all’olocausto o ad altri traumi indicano però che anche i traumi più tragici possono essere (faticosamente) superati se alcune condizioni sono date, create o stimolate. Tra queste la costruzione di un racconto personale che dia senso agli avvenimenti, consenta di esprimere l’inesprimibile, di fare da ponte andando al di là del trauma, riagganciare il passato ed il presente con la realtà e l’orrore del trauma lasciando aperta la porta al futuro.
Non è certo la storia positiva e compiaciuta degli storytelling di maniera. Piuttosto un racconto fatto di invincibili silenzi, inesprimibili paure, dubbi atroci, rassegnazione e false partenze, come nello straordinario romanzo di Roth, Giobbe, “il romanzo di un uomo semplice”.
“Mi dissero in seguito che ero stato a lungo malato e senza coscienza. Mi ricordo solo dei tempi di Pietroburgo, una sala bianca, letti bianchi molti bambini nei letti, un armonium o organo suona e io canto a voce spiegata. Poi il dottore mi porta in macchina a casa. Una donna alta, bionda, con un vestito azzurro chiaro suona il pianoforte. Si alza. Io mi avvicino ai tasti, suonano quando li tocco…”
Suggerimento musicale: Dvorak, Silent Woods